lunedì 25 novembre 2019

La "comfort zone" del coach




Spesso si sente parlare della comfort zone degli atleti.
Meno spesso degli allenatori.
Se mi seguite da un po', saprete sicuramente di quello che penso sull'eccessiva mole di dati che si hanno nel triathlon (la maggior parte dei quali sono superflui, se non inutili) e l'importanza dell'allenamento basato sulla percezione della fatica.
Tuttavia, adagiarsi sulle proprie convinzioni è il modo migliore per non migliorarsi.
E lo scopo di ogni allenatore dovrebbe essere quello di migliorarsi ogni giorno.

Il mio primo capo, quando mi vide per la prima volta in una esuberate fierezza delle mie conoscenze, mi punzecchiò...
"Sappi che tu puoi essere convinto si sapere già tutto, ma se io ho imparato anche una singola cosa ogni giorno, anche se nasco ignorante ne so comunque più di te"
E aveva ragione.

Da quando sono allenatore di triathlon non c'è un giorno che non approfondisca qualcosa di nuovo.
Certo, non ne saprò mai abbastanza, ma sempre un po' di più.

Ecco, proprio per questo motivo, ho cominciato a studiare e approfondire l'aspetto dell'analisi dei dati e la somministrazione dei carichi esterni desunti proprio da quegli stessi dati.
E sapete cosa ne penso?
Che tutto questo delimita con dei paletti non solo le prestazioni degli atleti, ma anche la sicurezza degli allenatori.
E' molto rassicurante per un coach dire che, se da un test escono determinati valori, l'allenamento andrà svolto con quegli stessi parametri.
Non posso sbagliare.
Se il dato mi dice X, l'allenamento e la programmazione saranno X.
Non posso sbagliare, perché c'è un ricercatore, uno studio scientifico, un altro allenatore più blasonato di me, che hanno detto che così funziona e così va bene.
E quindi restiamo sicuri nella nostra comfort zone.
Possiamo crescere e migliorare così?

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