lunedì 20 aprile 2020

La metodologia di allenamento come la caverna di Platone


Ho scritto ultimamente sui miei diversi punti di vista nel corso degli anni in merito alla metodologia degli allenamenti, in particolare sul carico esterno.
Basarli sulle sensazioni e percezione dello sforzo o affidarsi ai dati e alla loro analisi?
Mi piacerebbe fare un paragone di questo dubbio con il celebre mito della caverna di Platone.
(Se non ve lo ricordate, rinfrescatevi le idee qui)

Affidarsi ai dati è un po' come l'uomo imprigionato nella caverna.
E' un luogo in cui stiamo al sicuro, dove possiamo vedere ed analizzare una rappresentazione di quella che riteniamo essere la realtà.
Che tuttavia realtà non è.
Lavorare in Zona3, in base ad un test che ho fatto magari due mesi fa, in situazioni e momenti psicofisici totalmente differenti, non rappresenta affatto il suo corrispettivo nella Zona3 di adesso.
Però siamo al sicuro nella nostra caverna e difficilmente potremo avere un danno (sebbene prigionieri ed incatenati).

Affidarsi alla percezione ed interpretazione dei sensi, potremmo invece definirlo come una scoperta della realtà, o perlomeno dell'effettiva rappresentazione.
Non ci si può arrivare subito, è un processo che ha bisogno di un periodo di adattamento, come per vedere il sole.
Il rischio, tuttavia, qui è molto alto, perché si rischia di restare accecati.
Gareggiare a sensazione potrebbe portarci a spingere il nostro corpo a prestazioni che una condotta più conservativa, indicata dai dati, non potrà mai raggiungere.
Oppure a scoppiare clamorosamente.
Ma come tutte le cose, il percorso per la conoscenza è spesso tortuoso.

Così come rientrare nella caverna cercando di convincere gli altri prigionieri ad affrontare il rischio del mondo esterno.
Volete un altro paragone.
Continuando con le metafore i prigionieri nella caverna potrebbero essere gli atleti amatori, che hanno una visione assai ridotta del mondo reale, e quindi si trovano bene con i paletti fissati dai dati.
Gli atleti elite invece, decisamente più evoluti, non solo possono spingersi alla ricerca del mondo esterno (e quindi affidarsi alla propria percezione), ma sarebbe auspicabile una direzione del genere, per ottenere il massimo in gara.

E quindi, infine, dopo tutte queste supercazzole, quale sarebbe la soluzione definitiva?
Gli amatori potrebbero ricercare una evoluzione finalizzata ad affidarsi alle sensazioni?
E perché molti elite si allenano non sgarando neanche di un watt i propri allenamenti?
Beh, se dopo due millenni e passa, stiamo ancora discutendo di filosofia, spero non cerchiate la risposta da me...

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