Modestamente – ma neanche troppo – ritengo (ma me lo dicono anche gli altri eh) di avere un ottimo rapporto con i miei atleti.
E sì, è vero. Un buon rapporto significa essere disponibili, ascoltare, supportare, esserci. Ma attenzione, perché qui casca l’asino (e spesso anche il coach, figure che a volte coincidono): non significa rispondere a ogni messaggio in tempo reale.
Perché no, non è mancanza di rispetto. È strategia. È empatia. È buon senso.
Viviamo nel mondo del “subito”. Messaggio su WhatsApp? Rispondi. Notifica su Telegram? Rispondi. Commento su Instagram? Metti il cuoricino. Ora.
Ma il coaching non è customer service. Non sei un bot. Sei un essere umano. E quello che dici, ha un impatto.
Ci sono messaggi che arrivano a caldo. Dopo una gara storta. Dopo un allenamento deludente. Quando l’atleta ha finito le energie, il buonumore e pure la pazienza.
E lì, la risposta immediata è spesso benzina sul fuoco.
Sì, lo so, costa. Costa resistere alla tentazione di “essere bravo”, “essere presente”, “far vedere che ci sei”. Ma a volte esserci davvero significa saper aspettare.
Aspettare che si sgonfi l’emotività. Aspettare che la testa torni a ragionare. Aspettare che anche tu possa leggere quel messaggio con la giusta lucidità.
Perché rispondere di pancia è un attimo. Ma poi ci restano male, oppure fraintendono, oppure tu ti incazzi ancora di più.
E invece bastava un’ora. Una notte. Un giorno.
Quando rispondi, non stai mandando un messaggio. Stai gestendo un rapporto umano.
E ogni risposta costruisce o distrugge. O almeno, indirizza.
A volte la risposta giusta è un “Capisco.” A volte è una domanda. A volte è “Parliamone domani.” A volte… non è ancora il momento.
Questo vale per chi, come me, ha un’idea precisa di coaching: relazione, ascolto, presenza vera.
Il bravo coach non è quello che risponde (necessariamente) in 30 secondi. È quello che risponde quando serve, nel modo giusto, col tono giusto, nel tempo giusto.
Perchè sì, pure questo rientra nella lista dei mille cazzi che riguardano l'arte del coaching.
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