Beh sì, qui devo dire che mi sono sentito come essere arrivato al "Final Boss".
Ho avuto la possibilità di fare 5 domande a Brett Sutton, cercando di far convivere la solita ironia che potete trovare con il mio stile, ma anche qualcosa di utile per gli appassionati di triathlon.
E credo di esserci riuscito...
1. L’episodio più divertente che ti sia mai capitato come allenatore?
Uno dei miei primi camp di allenamento all’Alpe d’Huez: i ragazzi dovevano tornare a casa salendo la mitica montagna. Uno di loro non aveva le scarpe da ciclismo, solo un paio di infradito. Nonostante tutto, si è lanciato lo stesso: 21 tornanti, due ore e mezza di pura testardaggine. Il bello? Quella pedalata assurda ha cambiato la sua stagione: prima aveva concluso una sola gara su cinque, dopo è sempre arrivato in top 10, con anche qualche podio. A volte il successo parte davvero da un paio di sandali da pochi euro.
2. L’escusa più gettonata da un professionista che non ha voglia di allenarsi?
“Credo che stia per ammalarmi” È la numero uno in assoluto. Una specie di “carta libera uscita di prigione” per gli atleti. Ma quando fai questo lavoro da anni, distingui in tre secondi una malattia vera da una inventata. Regola d’oro: se sei abbastanza in forma da spiegare i sintomi nei dettagli, sei abbastanza in forma da entrare in piscina.
3. Hai mai pensato: “Basta, mollo — torno ad allenare cavalli”?
Più di una volta. Soprattutto dopo una gara in cui un atleta ignora ogni singolo punto del piano, esplode a metà gara e poi racconta a tutti che “è stata solo una brutta giornata”. Almeno i cavalli non fanno interviste post-gara.
4. Quando un allenatore dovrebbe smettere di seguire un atleta?
Quando la fiducia è finita. Se non crede più in quello che fai o va in cerca di scorciatoie che qualcun altro gli propone, la collaborazione è al capolinea. L’allenamento non è una democrazia: non si vota il programma. Se l’atleta vuole fare a modo suo, può sempre assumere se stesso.
5. Il consiglio più prezioso che daresti al te stesso alle prime armi?
Non perdere tempo a convincere chi non vuole essere convinto. Lavora con chi è totalmente coinvolto. E ricorda: non è il programma a fare l’atleta, ma la sua volontà di seguirlo fino in fondo.
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1. What’s the funniest thing that has ever happened to you as a coach?
At
one of my early training camps at Alpe d’Huez, the boys had to ride
home up the mythical mountain. One of them didn’t have cycling shoes —
only a pair of flip flops. He still took on the climb, 21 hairpins, and
2.5 hours of pure stubbornness. The best part? That ridiculous ride
transformed his season. Before that, he’d only finished one race out of
five. After it, he was top 10 in every race that French season — with a
few podiums for good measure. Sometimes success starts with a pair of
cheap sandals.
2. The most common excuse you’ve heard from a pro athlete who just doesn’t want to train?
“I
think I’m coming down with something.” That’s the all-time favourite.
It’s like a get-out-of-jail-free card for athletes. Problem is, when
you’ve been doing this long enough, you can spot a real sickness from a
phantom one in about three seconds. If you’re well enough to explain the
symptoms in detail, you’re well enough to get in the pool.
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3.
Was there ever a moment in your career when you thought, “That’s it,
I’m done — I’m going back to training horses”? If so, what triggered it?
More
than once. After a race where an athlete ignores every bit of the race
plan, blows up, then tells everyone they “just had a bad day.” Horses,
at least, don’t do post-race interviews.
4. What are the main reasons a coach should stop training an athlete?
When
the trust is gone. If they no longer believe in what you’re doing, or
they’re constantly looking for a shortcut someone else is selling, it’s
over. Coaching isn’t a democracy — you can’t vote on the training plan.
If the athlete wants to run the show, they can hire themselves.
5. What’s the most valuable piece of advice you would give to your younger self, just starting out as a coach?
Don’t
waste time trying to convince people who don’t want to be convinced.
Work with the ones who are all in. And remember: the plan doesn’t make
the athlete — the athlete’s willingness to do the plan does.
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