C’è un momento,
nel lavoro di un coach, in cui la prestazione va a puttane.
Dove i watt, i secondi al km, la soglia, i carichi, le tabelle… non contano più un cazzo.
È il momento in cui l’atleta sta male.
Non male nel senso “oggi non mi gira”, ma male nel senso “sto vivendo un casino emotivo vero, grosso, profondo”.
E tu, in quel momento, non sei più un allenatore.
Sei uno che deve decidere: scappo o resto?
Se resti, non alleni.
Accompagni.
L’allenamento, per un atleta, non è solo un modo per diventare più forte.
È l’argine che tiene in piedi tutto il resto.
Quando arriva una crisi – un lutto, una rottura, una perdita di lavoro, una batosta – tutto scricchiola.
Ma se resta l’allenamento, resta anche una parvenza di normalità.
Non devi spingere sulla performance.
Devi tenere la luce accesa nel corridoio mentre fuori è buio pesto.
Allenare un atleta in crisi non ti farà vincere medaglie.
Non avrai foto da "SUB10" da postare.
Ma forse, tra dieci anni, sarà l’atleta stesso a dirti “In quel periodo non ho mollato grazie a te.”
Ecco, lì capirai che il tuo lavoro è molto più che costruire prestazioni.
È (anche) custodire vite mentre si rompono.
E accompagnarle finché ricominciano.
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