giovedì 10 ottobre 2019

La gara come metafora di vita


Cerco da sempre sempre di alleggerire la visione  del triathlon.
Il rischio di prendersi troppo sul serio è sempre costante tra gli atleti amatoriali.
Tuttavia, alcune volte, mi piace dargli una connotazione drammatica ed epica perché è vero che volendo, (quasi) tutti possono preparare un IronMan, ma è altrettanto vero che non tutti hanno la voglia e la dedizione per farlo.

E quindi, per restare su questa linea di solennità, mi piace pensare la gara come una parabola esistenziale.
Un po' come il viaggio cosmico di David Bowman in Odissea nello Spazio.

Si comincia, come nella vita, immersi nell'acqua, in uno stato di rincoglionimento ovattato dove.
Improvvisamente ci si ritrova catapultati in un marasma generale, come in gioventù.
Si cerca di non fare errori, ma alla fine qualche cazzata si commette sempre.
Come a scuola, si lotta fianco a fianco, ma i cazzi sono sempre personali.
Non vediamo l'ora di "diventare grandi", e di ritrovarci già alla corsa...

Quando si cresce, poi, non  si è né carne né pesce, pieno di
Stai in un gruppetto in bici, provi ad allungare, poi recuperi nelle retrovie, non sai se è il caso di rientrare in un gruppo più veloce o aspettare quello più lento che arriva da dietro.

Quando comincia l'ultima frazione le energie sono ormai alla frutta e la stanchezza prende il sopravvento.
Si cerca di assaporare ogni piccola cosa, prendendo ogni incitamento dalle persone che ci sono vicine tra il pubblico.

E alla fine, quando ormai sei allo stremo delle forze, in quegli ultimi 500mt, quando vedi vicino a te le persone che ami e ti senti realizzato, vorresti che ricominciasse tutto dall'inizio...

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