martedì 8 luglio 2025

Guidare un atleta nel mezzo di una tempesta

 

C’è un momento, nel lavoro di un coach, in cui la prestazione va a puttane.

Dove i watt, i secondi al km, la soglia, i carichi, le tabelle… non contano più un cazzo.

È il momento in cui l’atleta sta male.

Non male nel senso “oggi non mi gira”, ma male nel senso “sto vivendo un casino emotivo vero, grosso, profondo”.

E tu, in quel momento, non sei più un allenatore.

Sei uno che deve decidere: scappo o resto?

Se resti, non alleni.

Accompagni.

L’allenamento, per un atleta, non è solo un modo per diventare più forte.

È l’argine che tiene in piedi tutto il resto.

Quando arriva una crisi – un lutto, una rottura, una perdita di lavoro, una batosta – tutto scricchiola.

Ma se resta l’allenamento, resta anche una parvenza di normalità.

Non devi spingere sulla performance.

Devi tenere la luce accesa nel corridoio mentre fuori è buio pesto.

Allenare un atleta in crisi non ti farà vincere medaglie.

Non avrai foto da "SUB10" da postare.

Ma forse, tra dieci anni, sarà l’atleta stesso a dirti “In quel periodo non ho mollato grazie a te.”

Ecco, lì capirai che il tuo lavoro è molto più che costruire prestazioni.

È (anche) custodire vite mentre si rompono.

E accompagnarle finché ricominciano.

lunedì 23 giugno 2025

Come (e perchè) smettere di allenare un atleta che non ti dà problemi, ma neanche stimoli. (Ovvero: "ti meriti meglio di me", ovvero "non sei tu, sono io...")

 

Parlare di atleti che ti fanno impazzire è facile.
Quelli che cambiano ogni allenamento da soli.
Quelli che spariscono e poi ti scrivono solo per dire “non mi sento in forma”.
Quelli che ti rispondono “ok” a tutto e poi non fanno niente.
Lì il distacco è quasi fisiologico. 
Arriva da solo, lo subisci o lo invochi.
Ma c’è un’altra situazione.
Più scomoda da ammettere: è quando hai un atleta corretto, pagante ed educato.
Ma che non ti dà più stimoli. 

E a questo punto l’onestà diventa una nostra responsabilità.

Il punto è che non si può continuare solo per comodità.
Solo perché “tanto non dà problemi”.
Solo perché “paga regolarmente”.
Perché a quel punto non sei più un coach ma un esecutore.
E lo sai bene: se tu ti spegni, anche l’atleta prima o poi lo sente.
E se non lo sente… è pure peggio.

Si vabbè ma come si fa?

Si fa con rispetto, ma si fa.
Si scrive. Si parla. Si guarda in faccia il fatto che non stai dando il meglio e che merita qualcuno che abbia ancora voglia di cercare il suo meglio.

“Senti, sei stato un atleta serio, presente, preciso. E proprio per questo ti devo dire che sento di non avere più l’energia e la curiosità che meriti. Non è colpa tua. Ma è giusto che tu abbia un coach che sente ancora di poterti dare tutto.”

Sì, proprio come hai fatto con la tua ex ( o più probabilmente come ha fatto lei con te). 

E, cosa più importante: NON E' UNA CONTRATTAZIONE! Non c'è "Vabbè coach dai proviamo a fare altro" oppure "ma è per [aggiungere un motivo futile]? Ti prometto che cambierò le cose].

Se si decide, si taglia. 

Anche se è tutto “ok”.

Perché ok non basta.

venerdì 20 giugno 2025

Le cose non dette: l'elemento più difficile da allenare

Mettiamo che ti do un lavoro di ripetute di corsa, 8x1000, a un passo definito.

E' chiaro che da un determinato allenamento mi aspetto che la gestione di quel passo possa essere adeguata a una risposta cardiaca congruente.

Naturalmente non è sempre così, per vari fattori, non necessariamente positivi o negativi: possono esserci variabili climatiche, di recupero/stanchezza, di cattiva interpretazione di una parte dell'allenamento che si ripercuote sul resto, ma tutto questo fa parte del lavoro di analisi di un allenatore che deve interpretare, capire, rimodulare e equilibrare il tutto costantemente.

Oltre questo però, c'è un grande ostacolo.

Tutto il feedback, tutte le sensazioni che l'atleta NON dice o distorce, più o meno volontariamente.

Tutti elementi che rischiano di compromettere un'analisi anche attenta di un allenatore.

Vi assicuro che capita molto più frequente di quanto si pensi, in ogni tipo di atleta.

Silenzi o distorsioni che servono (almeno nella testa dell'atleta) a non deludere il coach, ad autoconvincersi che il problema sia un altro (anche solo che NON ci sia un problema), a soddisfare le PROPRIE aspettative.

Attenzione, tutto questo è parallelo e non necessariamente collidente con il rapporto PERSONALE con il coach. 

Ma qui purtroppo, nonostante tutte la bella filosofia che infilo nei miei post sul rapporto coach/atleta, non ce se po' fa' un cazzo!

Il coach deve alzare bandiera bianca.

Il coach ha necessariamente bisogno di un'apertura totale dello stato dei suoi atleti perchè altrimenti, statene pur certi, qualsiasi risultato sarà monco. 

  

martedì 17 giugno 2025

Gli "stressor" nella preparazione dell'endurance

Rispondo ad una domanda interessante che mi è stata posta. 

Lunghi di corsa a mezzogiorno con 40° all'ombra...

Allenamenti indoor senza ventilatore e maglia a manica lunga per simulare l'umidità...

Servono o no per adattare il corpo a stimoli specifici per la gara?

Inserire stressor così debilitanti (relativamente ai quali sarà necessario un adeguato recupero) potrebbero essere utili, ma condizioni molto restrittive, ovvero con limitazioni del tempo e dep periodo della programmazione.

Vabbè quindi in sostanza quando e dove metterli?

Innanzitutto solo nel contesto di allenamenti a bassa intensità, da fare di conseguenza ad intensità ancora più bassa.

Secondo punto, inserirli solo nella parte finale: un esempio potrebbe essere un lungo di due ore di corsa, al quale aggiungere alla fine 15 minuti indoor in condizioni stressandi (quindi anche a casa in ambiente controllato).

Terzo aspetto, non più vicino di tre settimane alla gara clou che avete in programma, perchè si adnrebbero a variare troppi equilibri delicati.

Il tutto va contestualizzato anche al tipo di atleta che avete di fronte, livello ed esperienza.

Naturalmente, mi aspetto che dopo tutte queste premessa, ci sarà il neofita che sta preparando l'IronMan Italy, che a ferragosto si farà un lungo di tre ore di lungo di corsa al mare a mezzogiorno, stramazzando al suolo al primo primo bar sul lungomare.

Tanto poi ci sarà sempre una moglie che lo andrà a raccattare. 

 


venerdì 13 giugno 2025

La delicata arte del tapering

Periodo di gare, e si sa, durante le gare arriva quel momento delicato chiamato tapering.

Un delicato terreno dove si mischaino adrenalina che comincia a salire, fame incontrollabile e mille pensieri inconfessabili.

Oltre questo, c'è (anche) l'aspetto tecnico.

Bisgnorebbe cominciare a scaricare.

I manuali del bravo allenatore dicono diminuire il volume mantenendo (o aumentando leggermente) l'intensità.

Ma quando e quanto?

Oguno ha le proprie convinzioni, altri hanno capacità sovrumane.

Brett Sutton dice di essere in grado di definire perfettamente il tapering in base a quanto cresce la barba dei suoi atleti (il fatto che i suoi successi mondiali siano stati realizzati da Chrissie Wellington, Nicola Spirig e Daniela Ryf mi apre mille pensieri comunque, ma questa è un'altra storia).

Per quanto mi riguarda, c'ho lavorato tanto, c'ho sbattuto la testa, ho avuto le mie convinzioni e le ho ribaltate, ma alla fine la risposta è proprio quella, tanto temuta, che si presta alla roboante replica: GRAZIE AL CAZZO!

Ovvero: dipende.

La realtà è che in questo caso credo davvero che debba esserci un grande lavoro del coach, di conoscenza della fisiologia, ma soprattutto del contesto tecnico-tattico che si andrà ad affrontare e ancor di più del proprio atleta.

Si dice genericamente che più la gara è certa più il tapering va allungato, ma non è necessariamente così.

Con quale carico è arrivato il vostro atleta, come ha risposto al carico, che condizioni di gara troverà, ha bisogno di recupero extra o può permettersi di mantenere o forzare ancora un po'?

Sono tutte domande che un coach deve necessariamente farsi.

E sì, potete programmare un bel tapering anche senza misurare la ricrescita della barba.

giovedì 12 giugno 2025

Come contrastare la comunicazione "Stone Cold" degli atleti.

C’era questo wrestler, anni ’90, pelato, con gli stivali neri e la faccia da birra calda: Stone Cold Steve Austin.
Il suo motto era leggendario: “And that’s the bottom line, ’cause Stone Cold said so.”

L’ultima parola è la mia. Punto.

Ora, prendi questo atteggiamento e immaginalo dentro una chat coach-atleta.
Solo che stavolta non sei tu a fare Stone Cold.
È l’atleta.
E lì inizia la lotta.

Atleta: “Coach, domani faccio nuoto o bici?”
Tu: “Nuoto.”
Fine. Hai risposto. E' finita. Pensa tu.

Ma no.

Atleta: “Quindi pensi che sia meglio nuoto che bici, eh?”
Tu: “Sì.”
stavolta è chiusa, sicuro.

No.

Atleta: “Ok allora farò nuoto, va bene?”

E qui vorresti mandarlo _FF_ _ _ U_  _  (suggerimento: compra una vocale, la A)

Ma non lo fai.
Perché sei il coach.
(O almeno ci provi.)

Gli atleti Stone Cold non sono maleducati.
Non sono tonti.
Sono ansiosi da conferma.
Vogliono sapere che tu sei lì.
Che hai letto. Che sei d’accordo. Che li stai realmente seguendo.
Anche quando la risposta era già chiara due messaggi fa.

In fondo, vogliono sentirsi sicuri.
Ma nel frattempo, ti stanno svuotando la pazienza con una cannuccia.

La tentazione è quella di rispondere con un bel "leggi sopra" o un più moderno 🙃.
Ma tu sei il coach. E il tuo lavoro è guidare, non reagire, soprattutto male.

Quindi, ecco un paio di tecniche da manuale PandaLab:

1. La risposta blindata

“Fai nuoto domani. È la scelta migliore per te. Fine.”

Un “fine” ben piazzato vale più di mille emoji.
Chiude. Sigilla.
Fa capire che non serve replica. 

2. Il rinforzo preventivo

“Fai nuoto domani. Fidati. Ci serve proprio così.”

Dai il perché subito. Così eviti la coda inquisitoria.

3. Il silenzio strategico (il mio preferito)

Nnon rispondere.
Non perché sei scortese.
Ma perché hai già risposto.
Serve educare alla comunicazione funzionale, non alla chiacchiera circolare.

E risparmia loro un viaggio AFFANCULO (ma questo immagino che lo avevate già intuito). 


lunedì 9 giugno 2025

Come scegliere (o scartare) una collaborazione

 

Come fate a capire con quale professionista collaborare?

Semplice: ci sono due aspetti fondamentali che non potete ignorare

  • il valore effettivo della sua professionalit
  • la qualità comunicativa

Perché sì, anche se sei il miglior professionista del mondo, se comunichi come una camera d’aria a terra, della collaborazione non ci faccio un cazzo.

Esempio pratico…

Tempo fa contattai una psicologa dello sport per capire se fosse interessata a collaborare nella produzione di alcune risorse.

Mi risponde dopo dieci giorni scusandosi che era occupata con il lavoro.

Ora, già qui... o è una cazzata, o se ci metti 10 giorni per rispondere a una mail (e non hai 2000 clienti eh), evidentemente qualche problema c'è:

·         o con la tua capacità di gestione

·         o con il tuo lavoro stesso

Ma vabbè. Le do fiducia. Mi dà la disponibilità e le invio nello specifico quello che mi servirebbe.

Dopo altri 10 giorni (scusa eh, ma il lavoro...), mi chiede 600€ per una decina di lastrine in PowerPoint.

Ora…

Se fosse stata Maria Montessori, magari sarei stato pure disponibile a spendere due spicci anche solo per il nome.

Ma se si tratta di qualcuno che ha la metà della vostra clientela (e che probabilmente potreste essere voi il suo “traino”) allora c'è solo una cosa da rispondere:

“Oh grazie eh, sei veramente il top! Ti faccio sapere al più presto ma ora devo scappare a cagare...”

Il punto non è solo quanto vali sulla carta, ma quanto lo fai percepire.

Rispondi? In tempi umani?

Hai una presenza che fa capire che ci sei?

Chiedi 600€ per 10 slide?

Beh, allora ti rispondo  sulla tazza del cesso.

Perché il tempo è poco.

E se dobbiamo spenderlo male, almeno facciamolo in multitasking.

venerdì 6 giugno 2025

I coach con 15.000 followers su Instagram e mezzo commento

 Parliamo oggi di una categoria assai disagiata.

I coach con 15.000 followers su instagram (o anche di più eh).

Qualche reel pieno di metodi segreti vincenti e promesse di risultati certi.

Qualche grafichetta impostata di Canva ricca di perle.

Qualche video promozionale con spezzoni riciclati  di gare IronMan (non loro).

Qualche foto con filigrana per celebrare  qualche atleta che portato al traguardo.

Ma il capolavoro arriva nei commenti.
Un solo commento.
Sempre lo stesso.
Quel solito, eterno, immancabile 🔥. 

Generato da qualche bot in India.

15.000 followers ma sotto ogni post zero conversazioni vere.
Nessuna domanda. Nessun atleta. Nessun confronto.

Solo un fuoco finto.
Finto come l'empatia.
Finto come il il coinvolgimento.
Finto come il quel “coach mindset” ripreso da Pinterest.

Il problema non è avere i follower.
Il problema è credere che quello sia coaching. 


 

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